Esodati. Storie di un'economia distratta: l'intervista ad Antonio Rinaldis.
La
storia e le storie degli “esodati” non sono semplici da raccontare. Quali sono
state le difficoltà maggiori che hai incontrato nel raccogliere le
testimonianze alla fonte del tuo libro?
La
più grande difficoltà è stata quella di convincere i miei interlocutori della
mia buona fede e dell’onestà dei miei propositi. In un primo momento il mio
interesse poteva essere scambiato per una forma di primo giornalistica, la
possibile di strumentalizzare tragedie per la mia ambizione personale. D’altra
parte non erano preoccupazioni infondate, perchè la logica perversa della
comunicazione contemporanea impone molto pathos e poco logos, molte emozioni e
pochi ragionamenti. Il libro invece non vuole ubriacare con una raffica di
messaggi violenti, bensì cerca di costruire delle trame e dei racconti che
permettano di individuare delle storie più complesse, più profonde,
semplicemente più umane e meno televisive.
Tra
tutte le storie che hai conosciuto e che hai raccolto, quale ti ha colpito di
più, e perchè?
Le
persone che mi hanno impressionato in misura maggiore sono state alcune figure
femminili. Una in particolare che si chiama Mirella, perchè era così fragile e
indifesa, così vulnerabile che era impossibile non provare solidarietà con la
sua storia. Una persona garbata e gentile che mi è sembrata la vittima perfetta
di un sistema che premia i furbi e gli arroganti.
La
comparsa degli “esodati” ha origini che sono rimaste indefinite e non del tutto
chiare, anche a distanza di tre anni, ormai. Un po’ frutto dell’emergenza, un
po’ frutto dell'incompetenza, un po’ frutto del cinico calcolo, forse.
Studiando il caso “esodati” da vicino, che impressione ne hai ricavato?
Mi
sono avvicinato al fenomeno “esodati” perché mi è sembrato un caso esemplare di
come vanno le cose nel nostro sistema di vita e di governo. Coloro i quali
hanno prodotto le riforme pensionistiche Sacconi e Fornero sapevano perfettamente quello che stavano
facendo e non erano affatto degli sprovveduti. Hanno considerato gli “esodati”
come un costo umano inevitabile all'interno di una guerra giusta. Come accade
per bombe intelligenti che creano vittime innocenti, considerate accessorie,
rispetto alla giustezza della guerra che si sta combattendo. Ma se i mezzi sono
ingiusti, anche i fini diventano ingiusti, non bisogno mai dimenticarlo.
Nel
corso degli ultimi mesi sono diversi i libri dedicati agli “esodati”, ognuno
con un taglio particolare, sociologico, economico, psicologico. Il tuo libro
offre un ulteriore spaccato: perché hai scelto la forma delle testimonianze?
Perché
non sono un economista, né un sociologo, ma uno scrittore e un filosofo che si
è avvicinato al problema con l'intento esclusivo di riuscire a difendere il
senso umano della politica e dell’economia, denunciando il pericolo che invece
la prevalenza della tecnoeconomia possa abbattere la dignità e il valore della
vita umana. Le testimonianze sono il racconto in prima persona di persone vere
e reali che hanno rivendicato con calore e partecipazione il loro diritto alla
felicità, di fronte alla cinica e sprezzante logica dell'utile e
dell'efficienza. Lo so che può sembrare strano, ma ho voluto contrapporre le
ragioni del cuore a quella della ragione strumentale.
Leggendo il tuo libro si ha l'impressione che
ormai sia abbastanza
chiaro a tutti che il caso degli “esodati” è solo
l'ultimo, in ordine di tempo, degli attacchi ai diritti dei lavoratori e delle
lavoratrici, peraltro il più subdolo e il più maldestro nello stesso tempo.
Secondo te, è così? Cosa dobbiamo aspettarci, ancora?
E’ vero: gli "esodati" sono soltanto un caso
dell’evoluzione in senso tecnocratico e tecnoeconomico del capitalismo del
ventunesimo secolo. Tutte le conquiste democratiche degli ultimi due secoli
sono in pericolo di fronte alla logica spietata del mercato che significa
essenzialmente riduzione dei diritti civili naturali degli individuali e
sfruttamento intensivo del lavoro, a tutti i livelli. Se non si inverte questa
tendenza gli individui entreranno in una sorta di nevrosi collettiva, nella
quale la precarizzazione della vita, comporterà un aumento della competizione e
dell’aggressività, e ciascuno avrà la spiacevole sensazione di essere regredito
a una condizione selvaggia, in cui la lotta per la sopravvivenza polarizza
tutte le energie, e la comunità umana si è dissolta in una rete infinita di
microconflitti. E’ un futuro apocalittico ma possibile, se non viene
recuperato il senso greco della polis e della comunità come luogo privilegiato
della promozione e della realizzazione delle persone, in vista di una diffusione
democratica della felicità.
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